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L'adipe è un'appendice della democrazia.
Veniamo a sostituirvi le vostre armi di distruzione di massa con le nostre, ovvero snack, patatine fritte e hamburger

ricerca a cura di Nunzio Barone

 

L’adipe è un’appendice della democrazia. Dovrebbero metterla, i potenti della Terra, fra le ragioni per invadere gli stati-canaglia: “veniamo a sostituirvi le vostre armi di distruzione di massa con le nostre, ovvero snack, merendine, patatine fritte e hamburger”. Un regime di malnutrizione che, non a caso, dà il meglio di sé abbinato a un altro grande vessillo della democrazia occidentale: l’inebetimento della tv, fruita sgranocchiando schifezze affondati sul divano. Oltre alla democrazia, quindi, si “esporta” la ciccia, ovunque l’Occidente metta piede. Non a caso l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) ha coniato il neologismo “globesità”, ovvero la globalizzazione del grasso e dei problemi a esso collegati.

Dati alla mano il paradosso d’inizio millennio è che ingrassano i poveri dei paesi ricchi e i ricchi dei paesi poveri. In India – paese che ospita circa la metà della popolazione sotto nutrita del mondo – oltre il 50% delle donne comprese tra i 20 e i 69 anni è sovrappeso. Lo stesso accade al 20% della popolazione adulta cinese e, nell'arco di una sola generazione, il tasso di obesità dei bambini brasiliani si è impennato a oltre il 200%, quattro volte l'analogo tasso di crescita negli Stati Uniti. Dati ancora più lusinghieri per l’Egitto: un tasso di crescita dell’obesità, negli ultimi 18 anni, del 400%.

Insomma, mentre negli stati cosiddetti ricchi le persone benestanti (dopo anni di coloranti, additivi, grassi insaturi) sono più sensibili sui danni di un’alimentazione ipercalorica, nei paesi in via di sviluppo l’arrivo dei fast food è visto come una sorta di lasciapassare verso la modernità e il progresso. Così, i primi a correre ad abbuffarsi nelle colorate salette dei mangimifici multinazionali sono i giovani delle classi più agiate, avidi di appartenere al jet set internazionale. Il fenomeno si osserva anche in aree come il Vecchio Continente, dove il “grasso” è in drastico aumento nei Paesi dell’Est, recentemente annessi – o in via di annessione – all’Unione Europea.

L’obesità può essere affrontata sotto diversi punti di vista. In primis resta un problema medico: negli Stati Uniti è la prima causa di morte per almeno 300 mila persone all’anno e i dati rispecchiano il teorema di cui sopra, con una crescita doppia tra le minoranze etniche (un afroamericano su due e un ispanico su tre) rispetto all’èlite bianca e protestante, che ha a disposizione cibo migliore, cultura e tempo libero da dedicare alla cura di sé. La stessa proporzione si può osservare, attenuata, paragonando territori del nord e sud in Italia: la regione con più alto numero di bambini obesi è la Campania (36%) mentre il numero più basso è in Valle d’Aosta (14,3%).

Oltre alle questioni mediche, però, l’obesità è un problema culturale: perché le mode di Oltreoceano annullano tradizioni consolidate, azzerano le differenze regionali, stravolgono le abitudini di consumo, appiattiscono (danneggiando talvolta in modo irreparabile) il gusto. I soggetti più a rischio, come sempre, sono i bambini: i più facili da manipolare con pubblicità mirate e ingannevoli, con conseguenze che poi si trascinano per l’intera esistenza.

Risale a circa un mese fa la circolare del ministro della scuola francese, Xavier Darcos, che ha ordinato l’eliminazione dei famigerati distributori di merendine per sostituirli con punti vendita di frutta o di bibite naturali, mentre le 1035 scuole pubbliche di Rio de Janeiro hanno già messo al bando il junk food (letteralmente “cibo spazzatura”) lanciando un programma alimentare che si impernia sulla sana tradizione dei fagioli con le verdure. In Italia – e Slow Food in particolare – si parla ormai da anni di “educazione del gusto” nelle scuole: con corsi per docenti e studenti, l’istituzione di orti scolastici e degustazioni “giocate” volte a far riscoprire ai bambini il proprio universo sensoriale, obnubilato dagli aromi sintetici dei prodotti standardizzati.

“Viva la ciccia” cantilena Cecchini, il macellaio del TG5, ma non tutte le cicce sono belle e buone, e quasi mai salutari. 

Testo di Alessandro Monchiero. 

 

Tratto da: www.slowfood.it

 

 

 

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