Due combattenti, uno dell'esercito romano, l'altro un ribelle che lottava
contro l'autorità imperiale. Entrambi incontrano Gesù nel momento più drammatico
della sua esistenza. E quei pochi istanti bastano a cambiare la loro vita. Così come
per Cornelio e Simone il cireneo, "requisito" per portare la croce
Il "maresciallo" e il terrorista. Ovvero, il centurione e il buon ladrone.
Davanti alla Croce di Cristo i gradi militari del potere romano e l'ideologia
antimperialista contano poco. Per vie misteriose due uomini che militavano su
fronti opposti si ritrovano calamitati dal Mistero che ha tagliato in due la
storia. L'importante è non considerare i protagonisti di quel che accadde quel
giorno, forse il 7 aprile dell'anno 30, come figurine senza spessore.
Primo problema: la parola ladrone o l'apparentato vocabolo malfattore, non
restituiscono la traiettoria esistenziale del tizio che finisce appeso a fianco
di Nostro Signore. Anzi, quei termini depistano: «Malfattore o ladrone - spiega
a «Tracce» Giulio Firpo, professore di Storia romana all'Università di Chieti -
esprimono il punto di vista romano e dell'aristocrazia giudaica filo romana».
Se invece facciamo lo sforzo di guardare con l'occhio ebraico, allora dobbiamo
rovesciare la prospettiva: «Il ladrone - prosegue Firpo - era con ogni
probabilità un partigiano che combatteva contro l'autorità romana. La situazione
in Palestina, in quel periodo, era molto tesa: c'era stata una prima rivolta
nell'anno 6 d.C. guidata da un certo Giuda il Galileo, poi altre insurrezioni,
scontri e imboscate».
Lestài e sicari
La lotta agli occupanti veniva condotta dai lestài e dai sicari: «I sicari -
aggiunge Firpo - colpivano in città usando la sica, un pugnaletto. I lestài,
invece, operavano nelle campagne».
Attenzione alle parole: i "ladroni" sono, nell'originale greco, proprio i lestài.
E lestès è, in Giovanni, il termine con cui è indicato Barabba.
Barabba, nota Vittorio Messori in «Patì sotto Ponzio Pilato», «era quasi
certamente non un brigante o un delinquente comune, ma un sobillatore politico,
un guerrigliero». Stesso discorso per i due crocifissi del Golgota: «Tutto fa
dunque pensare - prosegue Messori - che facessero parte del commando di Barabba,
che fossero quelli cui accenna Marco: "Si trovava in carcere assieme ai ribelli
che nel tumulto avevano commesso un omicidio" (Mc 25,7)».
«I sicari, i lestài e altri gruppi ancora - riprende Firpo - erano, o meglio si
autodefinivano zeloti, vale a dire ribelli all'autorità romana, temprati al
sacro fuoco della legge di Mosè. E attendevano come imminente la fine dei tempi
e la vittoria del bene sul male». Barabba è chiaramente un nome di battaglia: in
aramaico Bar Abbàs significa "Figlio del Padre", un appellativo messianico. Non
ci sono dubbi. Nulla sappiamo di preciso sul ruolo dei presunti complici, ma la
storia dovrebbe essere la stessa.
In croce, il terrorista che ha visto franare i propri sogni avvia un dialogo
sorprendente con Gesù. E' Luca a ricostruire quella conversazione, drammatica, a
tre voci: «Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "Non sei tu il
Messia? Salva te stesso e anche noi". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu
hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché
riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di
male"». Che cosa scatta nella testa del buon ladrone?
Un sì fragile
Giuseppe Ricciotti, nella sua «Vita di Gesù Cristo», ci porta sulla strada della
conversione: «Probabilmente conosceva di fama Gesù di Nazareth e aveva inteso
parlare della sua bontà, dei suoi miracoli e del Regno di Dio da lui predicato:
certamente poi aveva, nonostante i suoi misfatti, un residuo di coscienza
onesto. Nell'imminenza della morte quel residuo riaffiora e ricopre tutto il
passato». Insomma, Dysmas - come è chiamato nel Vangelo apocrifo di Nicodemo -
si pente, indipendentemente da quel che aveva fatto. In altre parole, riconosce
qualcosa che corrisponde profondamente a quel che per una vita aveva cercato:
«Il buon ladrone - nota don Giussani ne «L'attrattiva Gesù» -, quel filo di
simpatia che ha espresso verso Gesù sulla croce, doveva averlo dentro verso il
Bene, verso qualcosa che aspettava mentre ammazzava durante la vita. E quel filo
valeva più di quanto non lo condannassero i suoi assassini». Alla fine, il buon
ladrone dice sì: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Un sì
fragile ma chiaro come quello di Pietro che pure aveva rinnegato il Maestro con
cui aveva vissuto per tre anni. E come il sì del centurione.
«Il centurione - è l'analisi di Marta Sordi, professore emerito di Storia greca
e romana alla Cattolica - era un sottufficiale e guidava un gruppo di una
cinquantina di uomini». Viveva insieme ai suoi soldati, forse gli stessi che
avevano schernito Gesù e si erano divisi la sua tunica, ai piedi della croce. E
rimane turbato, insieme a quelli che facevano la guardia a Gesù, dal succedersi
degli avvenimenti. E dal terremoto che suggella la scena sul Golgota.
Qualcosa di eccezionale
La storia di questo "maresciallo" è evidentemente lontanissima da quella di
Dysmas, ma in qualche modo i due arrivano allo stesso risultato. L'uomo che
muore fra atroci sofferenze ha combattuto l'Impero e ora riconosce la grandezza
di quel re dei giudei che viene ucciso al posto di Barabba. L'altro è stato
educato ai valori dell'ordine, della disciplina, della lealtà ai superiori.
Anche in lui, dopo che Gesù è spirato, scatta qualcosa: «Visto ciò che era
accaduto - ci informa Luca - il centurione glorificava Dio: "Veramente
quest'uomo era giusto"». Marco, che ai ladroni concede solo un fugace accenno,
si spinge addirittura oltre: «Allora il centurione che gli stava di fronte,
vistolo spirare in quel modo, disse: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio"».
Matteo riporta pure le ispirate parole del centurione, ma colloca sul terreno
della fede anche quelli che facevano la guardia: gli stessi soldati travolti
dall'evidenza del Mistero presente. Proprio come il loro capo. Ecco, in un
istante si compie il destino del diligente centurione romano. Per una vita gli
hanno insegnato a trattare con il dovuto rispetto i superiori, ora intuisce che
quell'uomo aveva qualcosa di eccezionale. Anzi, di divino. Torna in mente un
altro centurione, quello di Cafarnao, di cui ci parlano Matteo (8,5) e Luca
(7,1). Il sottoufficiale ha un servo paralizzato, si rivolge dunque a Gesù che
gli risponde così: «Verrò e lo curerò». Potrebbe pure accontentarsi, ma non è il
tipo. E la sua formazione militare lo porta a svolgere un ragionamento che
lascia ammirato Cristo: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio
tetto. Di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch'io, che
sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: "Va'" ed egli va; e a
un altro: "Vieni" ed egli viene, e al mio servo: "Fa' questo" ed egli lo fa».
«Il centurione - rileva la Sordi - porta nella sua fede la sua esperienza di
soldato romano e giustifica la sua richiesta con la disciplina che nasce dal "sacramentum
militiae", per cui "quando io dico a un soldato vieni, egli viene e quando dico
a un soldato vai egli va". Il rapporto tutto romano fra disciplina e "pietas"
per cui l'ubbidienza al superiore legittimo è ubbidienza alla divinità, è la
premessa umana della splendida fede del centurione di Cafarnao».
Come si vede, davanti a Cristo e alla sua croce cadono tutte le barriere
culturali, politiche, etniche. Anche se non viene annullata, ma se mai esaltata,
la specificità di ciascuno degli interlocutori di Gesù. Lo zelota che
vagheggiava la vittoria contro i romani si converte in punto di morte, il
soldato che portava Roma nel mondo resta ugualmente segnato dalla forza di
quell'uomo apparentemente sconfitto. «C'è - dice la Sordi - da parte dei romani
del Vangelo un atteggiamento complesso nei confronti di Gesù. Ci sono soldati
che lo scherniscono, ma anche i soldati e i centurioni che guardano a lui con
rispetto e con fede. Quello di Cafarnao, quello che assiste alla crocifissione,
Cornelio, la cui vicenda è narrata negli Atti degli apostoli. Proprio Cornelio
viene definito negli Atti "timorato di Dio". «I timorati di Dio - conclude la
Sordi - erano proprio quei romani che simpatizzavano per il giudaismo, anche se
non vi aderivano formalmente, perché la circoncisione era un ostacolo quasi
insormontabile. Tuttavia questi pagani apprezzavano il monoteismo e
riconoscevano la superiorità della legge morale giudaica». Cornelio segue questo
percorso, poi viene battezzato da Pietro.
Davanti alla Croce
Gli schemi non contano. Conta la storia personale di ciascuno. Davanti alla
croce scocca la scintilla. Il cuore di uomini diversissimi e lontanissimi l'uno
dall'altro per temperamento e cultura si commuove. Si scopre cambiato perfino
Simone il Cireneo. Nei Vangeli ci finisce quasi per sbaglio, mentre sta tornando
a casa dopo una mattina di lavoro: si trova sulla strada che sta portando Gesù
al Golgota e deve inchinarsi alla legge del più forte. Il centurione gli impone
un'odiosa corvée e gli tocca portare la croce. Un fastidiosissimo contrattempo.
«Nulla ci induce a credere - dice Ricciotti - che questo Simone conoscesse Gesù
o gli fosse discepolo, e quindi l'ordine ricevuto dovette essere tutt'altro che
gradito al "requisito"». Però quella strana esperienza lasciò tracce dentro di
lui. Altrimenti non si spiega perché Marco presenti quel passante, «un certo
Simone di Cirene che veniva dalla campagna», come «il padre di Alessandro e Rufo».
Perché quella notazione? La risposta, probabilmente, è al sedicesimo capitolo
della Lettera ai Romani di Paolo. «Salutate Rufo - scrive l'Apostolo dei gentili
-, questo eletto nel Signore e la madre sua che è anche mia». Certezze non ne
abbiamo, ma è facile immaginare che quei pochi minuti cambiarono la vita di
Simone. «Se suo figlio Rufo - nota Ricciotti - diventò più tardi persona insigne
nella cristianità di Roma e se la stessa moglie di Simone fu chiamata da Paolo
per venerazione con il nome di madre, si può concludere che il servizio prestato
a malincuore a Gesù produsse, in maniera a noi sconosciuta, ottimi effetti».
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