Per l'idealismo moderno la risurrezione sorge dall'idealizzazione postuma di
Gesù morto. La gloria nasce da una sconfitta. Viene così capovolto il racconto
evangelico, per il quale la fede nasce dalla percezione reale del Risorto, di
Colui che ha vinto la morte.
La risurrezione senza miracolo:
«La risurrezione non solo non è un miracolo, ma non è neppure un avvenimento
empirico. E la fede nella risurrezione non dipende dal fatto che si accetti o
respinga la realtà storica del sepolcro vuoto». Così recita il motto di
copertina messo a commento del testo di Andrés Torres Queiruga, «La risurrezione
senza miracolo», da poco tradotto in italiano (1). L'opuscolo è interessante
nella misura in cui è l'espressione compiuta di una tendenza che, dopo Bultmann,
è divenuta egemone negli studi esegetici e teologici: quella per la quale la
risurrezione è una pietra errante, un masso erratico che la critica deve
rimuovere onde rendere comprensibile, all'uomo moderno, il contenuto della fede
cristiana. Il Cristo risorto di Piero della Francesca o L'incredulità di Tommaso
di Caravaggio appartengono all'arte del passato. Nel futuro non si potrà più
dare una lettura realistica della risurrezione, solo quella "simbolica" potrà
essere ammessa. In un singolare capovolgimento dei processi cognitivi la fede
non presuppone il sepolcro vuoto e l'esperienza tangibile del Risorto; al
contrario è il Cristo risorto che "appare" tale solo nella precomprensione della
fede. In tal modo una parte cospicua della letteratura teologica - quella che dà
per scontata l'opposizione tra il "Cristo storico" e il "Cristo della fede" -
abbandona la posizione realistica e si incontra, necessariamente, con il punto
di vista idealistico. Per esso non è la realtà, ciò che concretamente accade,
che muove e spiega la "persuasione"; al contrario è la "visione del mondo", la
fede preliminare, che rende evidenti, "visibili", fatti che altrimenti non
sussistono. La fede, privata di ogni ragionevolezza, non è più "giudizio" ma
pre-giudizio che "vede" in modo difforme dalla realtà, luogo di un'esperienza
"mistica", affettiva, idealizzante. La fede idealizza, grazie alla mediazione
immaginativa, il suo oggetto. Nel caso del cristianesimo ciò significa che
Cristo "appare" come il risorto nella fede, grazie alla fede. Fuori dalla fede
c'è solo il mistero di una tomba vuota, di un cadavere scomparso. Un problema
che non interessa la fede per la quale ciò che importa è solo il Cristo ideale,
divino. La risurrezione non ha bisogno della carne di Gesù di Nazareth, della
sua persona singolare; è sufficiente l'idea, il simbolo dell'Uomo-Dio. La fede
vive dell'idea, non della realtà.
Questo presupposto, vero e proprio a priori concettuale, è palese nel testo di
Torres Queiruga. Per il filosofo di Santiago de Compostela le acquisizioni
«irreversibili» dell'esegesi e della cultura attuale fanno sì che non si possa
più concepire «la presenza attiva di Dio come un'irruzione puntuale, cioè,
fisica e accessibile ai sensi, nella trama del mondo» (2). Una definizione
perfetta dell'Incarnazione, che l'autore cancella con un semplice tratto di
penna. Al pari di Bultmann, per il quale «mitologica è la concezione in cui il
non mondano, il divino, appare come il mondano, umano, l'al di là come l'al di
qua» (3), anche per Torres Queiruga Dio non può agire sensibilmente in questo
mondo. Per questo «l'analisi della risurrezione di Gesù come "miracolo" - il più
spettacolare - è sparita definitivamente dai trattati seri. A tal punto che
perfino nei trattati più "ortodossi" si può leggere l'affermazione che la
risurrezione non solo non è un miracolo, ma non è neppure un avvenimento
"storico"» (4). L'"esperienza" del Risorto deve rimuovere ogni presenza di tipo
empirico. «Se il Risorto fosse tangibile o mangiasse, sarebbe necessariamente
limitato dalle leggi dello spazio, vale a dire non sarebbe risorto. E la stessa
cosa succederebbe se fosse fisicamente visibile» (5). Credere diversamente
significherebbe sottoporsi all'«imperialismo del principio empirista» (6),
rendere impossibile «la ragionevolezza della fede nella risurrezione» (7). Per
l'autore «i discepoli non videro con i loro occhi il Risorto né lo toccarono con
le loro mani, perché questo era impossibile stando egli al di fuori della
portata dei loro sensi» (8). Ciò che essi hanno "visto" «non può conservare
nessun rapporto materiale con un corpo spazio-temporale» (9). Del resto,
«nemmeno nella vita terrena il corpo può essere considerato il supporto
assolutamente indispensabile dell'identità», né «si vede che cosa vi potrebbe
apportare la trasformazione (?) del corpo morto, cioè del cadavere» (10). Per
l'"idealista" Torres Queiruga la "realtà" del Cristo risorto non presuppone la
sua realtà sensibile, corporea. Essa si fonda sulla soggettività del credente,
sulle «esperienze psichiche, di visualizzazioni o immaginazioni di convinzioni
intime. Convinzioni che possono avere un referente reale - il mistico nella sua
visione si collega realmente a Cristo - senza che lo sia la forma in cui si
presenta» (11). La "visione" presuppone l'esperienza interiore, la peculiare
condizione personale e ambientale, a partire da cui la «mediazione immaginativa»
(12) - che l'autore evoca richiamandosi a Kant - si attua dando forma
all'oggetto della sua aspirazione. Nel caso dei discepoli, «dentro la cultura
del tempo, aperta alle manifestazioni straordinarie ed empiriche del
soprannaturale, poteva funzionare con tutta naturalezza lo schema immaginativo
della risurrezione come una specie di ritorno in vita» (13). I discepoli cioè
credettero di vederlo in quanto predisposti a ciò da un contesto, un ambito
spirituale. All'interno di questo orizzonte l'elemento decisivo, la scintilla, è
provocata dall'esperienza fondamentale della morte di Gesù: «Il contesto
vivissimamente emotivo causato dal dramma del Calvario» (14). È qui, nel dramma
della scomparsa della persona cara, che matura «quello che potremmo chiamare
kantianamente lo "schema immaginativo" per comprendere la risurrezione come già
avvenuta» (15). Nel contesto messianico-escatologico di Israele la morte di Gesù
provoca un vuoto lancinante, un'esperienza di dolore che preme verso la sua
risoluzione. La croce di Cristo si "tramuta" nella risurrezione: «La
risurrezione avviene sulla croce stessa» (16). Cristo, il morto, nella fede
ritorna vivo. Torres Queiruga segue alla lettera, senza citarlo, Rudolf Bultmann:
«Croce e risurrezione come evento "cosmico" fanno tutt'uno» (17). La
risurrezione non è un evento reale che segue alla morte di Gesù in croce. È,
simbolicamente, la trasfigurazione ideale di Cristo indotta dall'esperienza
tragica della sua fine. In una forma paradossale, che è al centro del modello
idealistico, l'assenza produce la presenza, il vuoto dà luogo a una pienezza, la
privazione si tramuta in vittoria. Questo richiede che dalla croce sia rimosso
l'aspetto di scandalo, in senso paolino: il Figlio di Dio appeso a quella che
per i moderni è la forca. Questo aspetto sarebbe, nei Vangeli, una costruzione
letteraria, non già un elemento storico. Torres Queiruga riconosce che
«un'abitudine inveterata, che si appoggia fortemente sulla lettera dei Vangeli,
ha condotto a vedere la croce come un luogo di "scandalo", che decretava la fine
della fede dei discepoli, i quali a questo punto sarebbero fuggiti, negando e
tradendo il loro Maestro. Per spiegare la loro ulteriore conversione dovette
accadere qualcosa di straordinario e miracoloso che, con la sua evidenza
irrefutabile, li avrebbe restituiti alla fede. Questo qualcosa sarebbe la
risurrezione, che ottiene così un'autentica "dimostrazione" storica. Non si può
negare che l'argomento abbia una sua forza, e di fatto continua a essere il più
corrente nei trattati in uso. Tuttavia una riflessione più attenta ha fatto
vedere, ogni volta con maggior chiarezza e più ampia accettazione tra gli
studiosi, la sua natura di "drammatizzazione" letteraria con taglio apologetico»
(18). Questa conclusione sarebbe comprovata dal fatto che «l'ipotesi di un
tradimento o di un rinnegamento risulta profondamente incomprensibile e ingiusta
con i discepoli» (19). Questi avrebbero tradito Gesù nel momento della prova
suprema, sarebbero stati ingrati e senza cuore. Il che, per l'autore, è
inammissibile. D'altra parte lo scandalo vale per i romani, non per gli ebrei:
«I criminali di Roma erano gli eroi del popolo da essi assoggettato» (20).
La croce di Cristo, nell'ottica tutta positiva dipinta da Torres Queiruga, non è
ciò che allontana, il luogo della solitudine. Al contrario è il punto coagulante
della fede: «La crocifissione, con l'orribile scandalo della sua ingiustizia,
appare come il catalizzatore più determinante per comprendere che quanto è
accaduto sulla croce non poteva essere la conclusione definitiva» (21). La croce
non è un punto di fuga, ma di "svolta". Conclusione obbligata, questa di Torres
Queiruga, nella misura in cui tra la morte di Gesù e la fede della Chiesa
nascente non accade nulla. L'idealismo, come filosofia del non accadimento,
implica un corto circuito per il quale la fede deve precedere l'evento, non
seguirlo. L'argomento secondo cui i discepoli fuggono, impauriti e
demoralizzati, ha una "sua forza", come riconosce l'autore, e, tuttavia, non può
essere ammesso. Il vuoto deve produrre il pieno, la morte farsi idea del
Risorto, non già generare scandalo, fuga, disorientamento. Diversamente avremmo
"apologetica", non storia. Nella sua effettualità il morto è una bandiera, il
simbolo di una vita che non poteva tramontare.
Nell'orbita di Hegel
È singolare che Torres Queiruga citi a più riprese Kant - per la mediazione
immaginativa della fede - e non richiami invece Hegel. Singolare perché la sua
riflessione si colloca, in forma perfetta, all'interno dell'orizzonte
speculativo idealistico, ricalcando la sua cristologia quella hegeliana, con
discordanze che, per il tema trattato, sono del tutto marginali (22). Come per
Hegel, così per il filosofo spagnolo, la rivelazione «non consiste
nell'irruzione di qualcosa di esterno, bensì nella scoperta di una presenza che,
forse ignorata e magari presentita, era già dentro e tentava di farsi conoscere»
(23). Il cristianesimo riguarda l'ontologia, non la storia. Rivela ciò che è già
da sempre presente, sia pure velato, nell'interiorità dell'io; è un rapporto
immanente, non mosso dall'esterno. «Non è che in un dato momento Dio "entri" nel
mondo per rivelare qualcosa con un intervento straordinario. Egli è sempre
presente e attivo nel mondo, nella storia e nella vita degli individui, e sta
sempre cercando di far conoscere la sua presenza, affinché riusciamo a
interpretarla in modo corretto» (24). Per questo «quello che serve non è che il
sole incominci a brillare, ma che le finestre siano aperte e pulite» (25). La
Rivelazione non è Dio che si "rivela", poiché Egli lo fa sempre, ma la scoperta
umana «che costituisce rivelazione in senso stretto» (26). Torres Queiruga
destoricizza radicalmente il cristianesimo. Lo risolve in una struttura ideale,
in una concezione gnostico-panteistica per la quale il Dio-nel-mondo brama di
rendersi conoscibile perforando il velo d'ombra dell'umana ignoranza. Il Cristo
storico, come in Hegel, è solo l'"occasione" del destarsi, nella coscienza,
della consapevolezza del Cristo ideale. Al pari di Socrate Egli è la "levatrice"
la cui arte maieutica porta alla luce il Dio-in-noi secondo la «ricca e profonda
tradizione del magister interior» (27).
Questa prospettiva, l'idea di una rivelazione immanente, rispetto a cui il
Cristo storico è solo una provocazione contingente, chiarisce il secondo punto
di vicinanza tra Hegel e Torres Queiruga: la negazione della dimensione empirica
della fede. Nelle sue «Lezioni sulla filosofia della religione» Hegel distingue
una duplice fede: la fede esteriore e la fede interiore. La fede "esteriore" si
fonda sul Cristo storico, sulla sua persona e autorità. Questa però, per Hegel,
è una fede limitata, contingente. È «un modo esteriore, accidentale, della fede.
La fede vera e propria riposa nello spirito di verità. L'altra concerne ancora
un rapporto con la presenza sensibile immediata. La fede vera e propria è
spirituale, è nello spirito: essa ha per suo fondamento la verità dell'idea»
(28). Rispetto ad essa «la fede esteriore deve dunque essere considerata solo
come un mezzo per giungere alla vera fede; in quanto esteriore è sottomessa alla
contingenza e lo spirito raggiunge la sua verità non secondo la contingenza ma
secondo la libera testimonianza»29. La fede interiore riposa sull'idea eterna,
sull'ideale immanente dello spirito, non sui miracoli o su una rivelazione
empirica. È quella fede che, secondo l'idealista Hegel, "produce" l'idea
dell'Uomo-Dio, trasforma il morto in un risorto. La fede interiore opera la
metamorfosi del Cristo storico, un utopista ebreo dal messaggio rivoluzionario,
nel Cristo "teologico", divino. Grazie ad essa la figura di Gesù di Nazareth è
consegnata alla memoria, al passato, alla prima non spirituale apparizione del
divino.
Il punto che media il passaggio tra le due immagini di Cristo, quella empirica e
quella ideale, - ed è il terzo elemento che accomuna la cristologia di Torres
Queiruga a quella hegeliana - è la morte di Cristo. La morte è la risurrezione:
questo topos della cristologia idealistica, da Hegel a Bultmann, è il vero nodo
attorno a cui ruota gran parte dell'esegesi storico-critica. È un nodo che
tiene, sul piano speculativo, solo se vale l'assunto della dialettica, quello
per cui dal negativo procede necessariamente il positivo. Come scrive Torres
Queiruga: «Lo stesso pensiero moderno, tanto filosofico quanto teologico, sa
della capacità rivelatrice di questo tipo di esperienza, perché la stessa
contraddizione al suo interno obbliga a cercare una sintesi capace di
riconciliarla» (30). Nel caso della morte di Gesù «solo la risurrezione e
l'esaltazione permettevano di superare questo terribile contrasto, che
minacciava di affondare tutto nell'assurdo» (31). Dalla morte, dal negativo,
emerge la necessità del positivo. Una necessità ideale: Cristo risorge
nell'idea, nella concezione della comunità, nella fede interiore. Non nella
realtà fattuale. In tal modo, come scrive Hegel: «Questa morte è il punto
centrale intorno al quale ruota il tutto, nella sua concezione sta la differenza
tra la concezione esteriore e la fede, cioè a dire la mediazione con lo spirito»
(32). Ne viene, come conseguenza, che la fede autentica si fonda sulla morte di
Gesù, non sulla sua risurrezione, sorge dal Cristo morto, non dal Cristo
risorto. Il Cristo risorto non fonda la fede, è piuttosto "fondato", idealizzato
dalla fede. L'idealismo, sotteso all'opposizione tra Cristo della fede e Cristo
della storia, capovolge, in tal modo, i termini con cui, nella concezione della
Chiesa, si presenta il rapporto tra fede e realtà. Nella misura in cui il
Risorto presuppone già la fede nell'Uomo-Dio, quella fede deve sorgere,
necessariamente, dalla sublimazione di una sconfitta. Il cristianesimo, come
dogma, sorge dall'idealizzazione di un fallimento, non già dall'empirismo
giovanneo fondato su ciò che è stato «visto, udito, toccato con mano».
Una morte incomprensibile e una fede senza risurrezione
L'idealismo storico-critico, fondato sulla dialettica del negativo, rende ardua
non solo la comprensione della risurrezione - opera comunque di "visionari" - ma
anche quella della morte di Cristo. Se Gesù non è stato condannato a morte per
essersi proclamato Dio, perché è stato crocifisso? L'autoproclamazione divina è
negata in nome della opposizione tra il Cristo storico e il Cristo della fede.
Solo la comunità dei credenti divinizza Gesù che di per sé non si sarebbe mai
concepito come Dio. Per spiegare il motivo della condanna non rimane che
l'ipotesi politica: Gesù come potenziale zelota che, pericoloso per l'ordine
romano, viene crocifisso. È il leitmotiv del Gesù "ebreo" che guida l'«Inchiesta
su Gesù» di Corrado Augias e Mauro Pesce (33). Un'ultima prova di una ricerca,
curiosa e a tratti non banale, che, tuttavia, non riesce, per i presupposti
ancora una volta idealistici, a produrre nulla di nuovo. Il Gesù ebreo non
cristiano (34) di Augias-Pesce è un utopista, vicino al gruppo di Giovanni
Battista, contrassegnato da una totale fiducia in Dio e da un'attenzione
particolare per gli ultimi. Un radicale senza tuttavia un'utopia sociale
organizzata, che, al di là dei toni e della testimonianza, non mostra nulla di
originale, nella morale, rispetto alla legge ebraica. Perché, dunque, questo
sognatore, impolitico e inoffensivo, è stato mandato a morte? Pesce dichiara che
non è per motivi religiosi ma politici che Gesù viene condannato dal potere
romano. Le responsabilità dei membri del Sinedrio sarebbero opera della
ricostruzione, posteriore, dei redattori dei Vangeli, filoromani. Quali sono,
però, i motivi politici per cui Gesù viene condannato? Si tratta di sospetti
sulla natura di un movimento, sorti in chi «non ha colto le reali intenzioni
dell'azione di Gesù. Dunque si è trattato, da parte dei romani, di un grossolano
e grave errore di valutazione politica» (35). Una considerazione, invero,
sorprendente, che lascia interamente in sospeso i motivi della condanna a morte
di Gesù. Non estesi, per altro, e anche questo risulta strano, ai suoi
discepoli. Parimenti misteriosa rimane la risurrezione, affermata non da
testimoni oculari ma da veggenti che "vedevano" all'interno degli schemi
cultural-religiosi di Israele. Del pari totalmente enigmatico, nell'«Inchiesta»,
risulta essere il sorgere del cristianesimo. Pesce non è d'accordo «sull'idea
che il cristianesimo nasca con la fede nella resurrezione di Gesù, né che nasca
grazie a Paolo [...]. Anche Paolo, come Gesù, non è un cristiano, ma un ebreo
che rimane nell'ebraismo» (36). Il cristianesimo sorgerebbe, più tardi, nella
seconda metà del II secolo in un processo di ellenizzazione della originaria
posizione ebraica. Rispetto a Hegel e a Torres Queiruga, Augias e Pesce
aggiungono un'ulteriore frattura che rende ancor più enigmatica la nascita della
fede cristiana. Nel quadro hegeliano il cristianesimo è mediato dalla morte di
Gesù, il cui prodotto è l'idea del Risorto. In «Inchiesta su Gesù» esso sorge
molto dopo la visione della risurrezione, frutto non della fede ma di una
tardiva elaborazione teologico-filosofica di stampo ellenistico. Ciò che rimane
fermo è il topos dominante: la fede non si fonda sulla risurrezione, la precede
o la segue senza avere con essa rapporto. Un'impostazione che, invece di
semplificare il problema, lo complica enormemente. Se il Cristo storico è quello
descritto da Augias-Pesce, un ebreo osservante senza nulla di veramente
originale, non si comprende come possa essere «l'uomo che ha cambiato il mondo».
Non si comprende perché è stato condannato. Se quest'uomo ha terminato la sua
vita nello scacco, non si comprende, per chi non accetta la necessità logica
della dialettica, come da un morto possa sorgere, nella primitiva comunità, la
fede in un vivente. Non si comprende, da ultimo, come il "Cristo della fede"
possa prescindere dalla risurrezione, reale o immaginaria che sia, e formarsi
solo nel II secolo, come vuole Pesce. Un destino singolare per il razionalismo
storico-critico: nato con l'intento di rendere chiaro il contesto, esso riesce a
delineare un quadro complessivo pieno di zone d'ombra e di salti nel vuoto. Il
modello idealistico dimostra tutti i suoi limiti. Partendo dal pregiudizio che
il fatto non possa essere accaduto - che Dio non possa divenire uomo e risorgere
da morte - esso deve giustificare la fede come idealizzazione. Con ciò però la
narrazione evangelica diviene incomprensibile. Se le descrizioni del Cristo
risorto costituiscono il grande enigma, per il lettore antico e moderno, ciò
nondimeno la sua rimozione genera una serie di interrogativi senza risposta. È
il Cristo "storico" che diviene incomprensibile. Ritrovato, archeologicamente,
sotto gli strati della fede, egli appare come un sognatore, radicale e ingenuo a
un tempo, che non motiva l'incendio che ha investito la storia. Le conclusioni
del razionalismo critico - trarre fuori un vivente da un morto, una rivoluzione
spirituale da un utopista analogo a molti altri - sono profondamente
irragionevoli. Lo scacco di questa posizione è la premessa "critica" per una
ripresa di una posizione realista che non ha la pretesa di dimostrare il dogma,
quanto di riconoscere che è contro ogni evidenza razionale, umana, affermare che
la vista desolata di un crocifisso possa generare l'idea, gloriosa, di un
risorto.
Note:
1 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, tr. it., Edizioni La
Meridiana, Molfetta (Ba) 2006. Il testo, di cui non è indicato l'originale
spagnolo, è una sintesi dell'opera maggiore, Repensar la resurrección.
La diferencia cristiana en la continuidad de las
religiones y de la cultura, Trotta, Madrid 2003.
2 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 8.
3 R. Bultmann, Neues Testament und Mythologie. Das Problem der
Entmythologisierung der neutestamentlichen Verkündigung, Herbert Reich Verlag,
Hamburg-Bergsted 1948, tr. it., Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della
demitizzazione del messaggio neotestamentario, in: R. Bultmann, Nuovo Testamento
e mitologia, Queriniana, Brescia 1973, p.119.
4 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 8.
5 Ibidem, p.42.
6 Ibidem, p. 48.
7 Ibidem, p. 47.
8 Ibidem, pp. 46-47.
9 Ibidem, p. 49.
10 Ibidem, p. 54. In modo identico Kant afferma: «La ragione non ha
interesse a trascinare nell'eternità un corpo che (ammesso che la personalità
poggi sull'identità del corpo) deve sempre, per purificato che sia, essere
composto dalla stessa materia che sta alla base del nostro organismo e alla
quale l'uomo stesso non si è mai attaccato durante la vita; né è comprensibile
che cosa mai possa avere in comune col cielo questa terra calcarea di cui l'uomo
è formato» (I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it.,
in: I. Kant, Scritti morali, Utet, Torino 1970, p. 457, nota a).
11 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 42.
12 Ibidem, p. 65.
13 Ibidem, p. 41.
14 Ibidem, p. 23.
15 Ibidem.
16 Ibidem, p. 53.
17 R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitizzazione
del messaggio neotestamentario, op. cit., p.165.
18 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., pp. 26-27.
Corsivo nostro.
19 Ibidem, p. 26.
20 Ibidem, p. 29.
21 Ibidem, p. 30.
22 Sulla cristologia hegeliana si cfr. M. Borghesi, La figura di Cristo in Hegel,
Studium, Roma 1983; Idem, L'età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo "storico" al
Vangelo "eterno", Studium, Roma 1995.
23 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 59.
24 Ibidem, p. 36.
25 Ibidem.
26 Ibidem, p. 37.
27 Ibidem, p. 38.
28 G.F.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., 2 voll.,
Zanichelli, Bologna 1974, vol. II, pp. 388-389.
29 Ibidem, vol. I, p. 283.
30 A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 30. Corsivo
nostro.
31 Ibidem, p. 31.
32 G.F.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, op. cit., vol. II, p.
372.
33 C. Augias-M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l'uomo che ha cambiato il
mondo, Mondadori, Milano 2006.
34 Cfr. ibidem, pp. 221 e 237.
35 Ibidem, pp. 168-169.
36 Ibidem, p. 201.
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