Da tutte le parti sentiva discorsi che opponevano la fede alla storia. E,
leggendo le traduzioni correnti dei Vangeli, restava sconcertato: il discepolo
prediletto al sepolcro si comportava come un idealista visionario. Così, uno
sconosciuto parroco di provincia decise di riprendere in mano i testi originali
in greco. La sua ricerca "senza mandato ufficiale" rende ragione del perché
l'apostolo Giovanni lì iniziò a credere.
Intervista di Gianni Valente:
Ognuno ha la sua postazione da cui sbirciare il mondo. A lui, don Antonio
Persili da Tivoli, è toccata la parrocchietta di San Giorgio, incastonata nella
parte vecchia della sua cittadina. Piazzette, vicoli e archetti abbarbicati sui
precipizi che si affacciano sull'Aniene. E laggiù, spalmata di foschia, c'è
Roma, che la notte diventa un mare di luci.
A settantasette anni, arriva su una vecchia Ritmo scarburata color carta da
zucchero, come la giacca a vento che porta stiracchiata sulla tonaca a
proteggere da un improvviso contropiede dell'inverno. Si carica le due buste
della spesa (pane, latte, uova, qualche yogurt), apre il portoncino verde e sale
col solito passo le scale della canonica. Fa così da tanto tempo. Da quando è
arrivato qui nel '55 come parroco, e, cosa rara in questa Chiesa di preti e
vescovi volanti, non l'hanno più spostato.
Ora, in quest'angolo di mondo a cui si è avvicinata troppo la città dove risiede
il successore di Pietro, don Antonio non aveva il problema di sentirsi investito
di chissà quale missione. La vita andava da sé, senza neanche troppo trasporto
per la propria condizione. "Figurarsi... sono diventato prete perché mio padre
mi aveva spedito al seminario quasi per punizione, per farmi studiare, un giorno
che avevo marinato la scuola insieme a un compagno. Allora, si usava così...". E
infatti, non è che all'inizio (e anche dopo l'inizio) fosse molto contento.
"Quello che m'insegnavano, lo accoglievo senza obiezioni, ma non mi toccava il
cuore. C'era un modo di esporre le verità della fede cristiana che dava tutto
per scontato. Sentivo che mancava qualcosa. Comunque, si tirava avanti...".
Ma poi successe qualcosa. Dal suo appartato punto d'avvistamento il prete di
provincia si accorse anche lui di quella che oggi descrive come una silenziosa
ma radicale metamorfosi nella Chiesa. Un particolare, in questo epocale
smottamento, fissò la sua attenzione: il modo nuovo in cui si cominciò a parlare
della resurrezione di Nostro Signore. "Al seminario di Tivoli mi avevano
insegnato che la resurrezione di Gesù Cristo nella carne era la prova della sua
divinità, e per questo era il fondamento della nostra fede. Poi, qualcuno
cominciò a dire che bisognava considerarla innanzitutto come un «mistero di
salvezza». Altri aggiunsero che non era tanto importante riconoscere la
resurrezione come un fatto accaduto, ma credere nella sua forza salvifica per
noi. Infine, qualcun altro ci fece sapere che per accogliere questo mistero di
salvezza apportato dalla resurrezione non bisognava inseguire indizi concreti,
storici, ma occorreva avere la fede". Insomma, un rovesciamento totale. "Se
prima la resurrezione era il fondamento della fede, adesso serviva la fede per
cogliere il mistero di salvezza della resurrezione...". Don Antonio snocciola a
casaccio mille esempi di questa deriva idealistica, partita dai teologi e dai
maestri e poi a poco a poco penetrata fin nei capillari della predicazione
ordinaria della Chiesa. Da Karl Rahner - per il quale anche i dettagli storici
dei racconti evangelici sulla resurrezione di Gesù "vanno interpretati come
rivestimenti plastici e drammatizzanti (di tipo secondario) dell'esperienza
originaria «Cristo vive» e non come descrizione di questa stessa nella sua
autentica essenza originaria", né, tantomeno, «come esperienza quasi
grossolanamente sensibile» - giù giù fino al "Dizionario Biblico" di J.-L.
McKenzie, pubblicato in italiano da Cittadella nell'81, dove si legge che "Gesù
risorto (come le apparizioni di Gesù) è una realtà sovrannaturale che non
appartiene a questo mondo e non può essere oggetto di ricerca storica in quanto
tale: essa è soltanto oggetto di fede. [...] Riconoscere l'avvenimento come un
fatto, non è nulla: accettarlo come un fatto salvifico è credere in esso ed
ottenere la salvezza che in esso si compie. Nel Vangelo di Giovanni (20, 29)
Gesù elogia la fede nella resurrezione, non l'osservazione del fatto.
L'importanza della resurrezione nella predicazione e nella catechesi del Nuovo
Testamento si fonda sul suo significato teologico".
A quel punto, don Antonio non ci capiva più niente. "Da tutte le parti sentivo
discorsi che mettevano in opposizione la grazia della fede alla storia. Dietro
tanti paroloni, alla fine la fede cristiana diventava una specie di partito
preso. Una autoconvinzione che poggia su se stessa". Un dogmatismo idealista
che, a suo vedere, poco c'entrava con quanto era successo tra i primi testimoni:
"A sentire i Vangeli, le donne, i discepoli e gli apostoli non avevano alcuna
fede «preventiva» nella resurrezione. Per raggiungere questa fede, non sarebbe
bastato loro nessuno sforzo di immaginazione mistica, magari tirando in ballo a
sproposito la grazia. Tutti, invece, per diventare testimoni della resurrezione,
avevano avuto le prove storiche del suo reale accadimento. Tommaso, in
particolare, aveva voluto personalmente sincerarsi che il Gesù risorto fosse lo
stesso Gesù che era morto in croce".
Il povero prete tiburtino, per non rimanere confuso, scese a Roma. Andò a
chiedere lumi agli illustri professori del Pontificio Istituto Biblico. Fece
anche un salto dagli scrittori della "Civiltà Cattolica". "Ci fu chi mi disse
che ogni tentativo di cercare riscontri storici ai racconti della resurrezione
non apparteneva alla teologia cristiana, ma alla «scienza del demonio», perché
che Cristo sia risorto non è un problema storico, ma è solo oggetto di fede".
Finì che don Antonio si scrollò i calzari, provò ad andare avanti senza l'aiuto
degli «esperti». E senza chiedere permesso.
Ripartì dall'inizio, dalla prima volta che, a quanto scrivono i Vangeli, un uomo
aveva iniziato a credere nella resurrezione di Gesù. Ossia da quella scena
davanti al sepolcro in cui era stato sepolto il corpo di Gesù, dove erano
arrivati trafelati Giovanni e Pietro, quella domenica mattina. "E' lì che, come
racconta nel suo Vangelo, davanti a ciò che era rimasto nel sepolcro spalancato,
ormai senza il corpo di Gesù, Giovanni «vide e credette». A differenza di
Pietro, che era rimasto solo confuso e quasi turbato dalla mancanza del corpo di
Gesù". Come prima cosa, don Antonio registrò con stupore che la gran parte degli
esperti neanche si soffermavano su questo episodio che aveva causato la prima,
embrionale presa d'atto della resurrezione di Gesù da parte del discepolo
prediletto. "Ad esempio, il teologo Bruno Forte, in un libro del 1982, sosteneva
l'ipotesi che si trattasse solo di una leggenda eziologica "tendente a motivare
il culto che a Gerusalemme si teneva presso il luogo della sepoltura di Gesù". E
il catechismo per i giovani della Cei, nella sua versione del 1976, liquidava la
faccenda annotando che Pietro e Giovanni si erano soltanto "stupiti di trovare
il sepolcro aperto e vuoto"".
Poi, leggendo e rileggendo la pericope evangelica dei due apostoli davanti al
sepolcro, concordò che in effetti le versioni di uso corrente non facevano
capire perché Giovanni aveva iniziato a credere nella resurrezione di Gesù
proprio da quel momento. "Ad esempio, nel Nuovo Testamento pubblicato dalla Cei
è scritto che i due discepoli, scrutando all'interno del sepolcro, videro "i
teli ancora là, e il sudario, che era stato posto sul suo capo, non là con i
teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo". Ora, non si capisce proprio per
quale motivo Giovanni, per aver visto una simile scena, ossia delle bende
funerarie e un sudario ripiegato, avrebbe dovuto intuire che Nostro Signore era
risorto. Anzi, un simile salto logico a me farebbe sorgere dubbi sulla sanità
mentale di Giovanni...".
E in effetti, in tanti hanno sparlato di Giovanni come del primo idealista
visionario, l'anti-Tommaso, il modello del cristiano che per credere
non-ha-bisogno-di-vedere. Ma tutto questo a don Antonio non quadrava. Decise di
andare più a fondo. Riprese in mano l'originale greco dei Vangeli e i manuali di
greco biblico. Raccolse gli studi e gli articoli più aggiornati sugli usi
funerari dell'antico mondo ebraico. Tra un battesimo, un'estrema unzione e una
benedizione delle case, si avventurò in una vera e propria indagine
storico-linguistica. Alla fine scoprì la magagna, che poi era un po' un uovo di
Colombo.
Scoprì che le traduzioni ufficiali del brano evangelico in questione erano
infelici. Finivano per occultare dei particolari che invece erano indispensabili
per cogliere cosa era accaduto quel giorno a Giovanni. E qui, la conversazione
col parroco tiburtino prende la piega di una lezione di esegesi e di tradizioni
funebri ebraiche. Bisogna seguire bene tutti i passaggi. "Secondo l'uso del
tempo, i morti con effusione di sangue venivano sepolti senza essere lavati né
unti. Il sangue era considerato la sede del principio vitale, e quindi andava
sepolto insieme al cadavere. I Vangeli ci avvertono che Giuseppe d'Arimatea, il
ricco sinedrita padrone del sepolcro in cui fu posto Gesù, aveva portato per
l'inumazione un rotolo di tela, mentre Nicodemo aveva portato una "mistura di
mirra ed aloe di circa cento libbre", più o meno trentacinque chili. Dal rotolo
di tela erano stati tagliati tutti i pezzi necessari a ricoprire e fasciare il
corpo di Gesù: il telo più grande, con cui fu avvolto tutto il corpo
insanguinato, anche per evitare che chi si occupava dell'inumazione lo toccasse
con le mani nude; le fasce, abbastanza larghe (nell'originale greco: tà othónia),
che vennero fatte girare intorno al lenzuolo, per tenerlo stretto intorno al
corpo; e il sudario, un fazzoletto quadrato che fu posto sul capo di Gesù, come
testimonia lo stesso Giovanni. I profumi, a cui si ricorreva per coprire il
cattivo odore, erano stati versati all'interno delle fasciature e anche sulla
superficie in cui era stato posto il corpo di Gesù". Ora, proprio nella pericope
che descrive la scena dei due apostoli davanti al sepolcro, errori grammaticali
e di traduzione creano malintesi sulla posizione in cui Giovanni e Pietro
trovarono tutti questi panni. Spiega Persili: "Nell'originale greco è scritto
che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà othónia keímena. Ho già detto che la
versione della Cei traduce questa espressione con «i teli ancora là». Altre
versioni la traducono con «i teli per terra». In realtà il verbo keîmai, da cui
viene il participio keímena, non significa genericamente «essere lì» né
tantomeno «stare per terra». Esso indica una posizione precisa, significa
giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due
videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere
state sciolte o manomesse. Erano rimaste immobili al loro posto. Probabilmente
in una nicchia scavata nella parete, tipica dell'architettura funeraria di tipo
signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel
corpo non c'era più, e le tele si erano afflosciate su se stesse". Gli errori di
interpretazione si ripetono, secondo Persili, anche riguardo alla posizione del
sudario. L'originale greco usa ben venti parole per descriverla. Le versioni
correnti introducono tutte l'idea che il sudario si trovi spostato rispetto al
punto in cui si trovava quando il corpo di Gesù era stato sepolto. La versione
Cei, ad esempio, traduce: "e [videro] il sudario, non là con i teli, ma in
disparte, piegato in un luogo". Don Antonio, davanti a tali traduzioni, freme. E
dice la sua: "keímenon, come già keímena, è participio di keîmai, giacere. Ou
metà tôn othoníon keímenon significa che il sudario non era disteso come le
altre bende. Ma, al contrario (così va tradotto l'avverbio khorìs, in senso
modale), appariva arrotolato (entetyligménon, dal verbo entylísso, che significa
avvolgere, arrotolare) in una posizione unica, singolare. Così si può tradurre
eis héna tópon, che le versioni correnti traducono banalmente come «in un
luogo». Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva
sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi
avevano avuto un effetto inamidante".
Se questo fu lo spettacolo che si presentò ai due apostoli, si può comprendere
perché a quella vista il discepolo che Gesù amava poté intuire ciò che era
accaduto. Non lo avevano portato via. Era risorto nel suo vero corpo, come aveva
promesso, con parole che nemmeno i suoi avevano capito. Spiega don Antonio: "Era
impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce per una improvvisa
rianimazione, o che fosse stato portato via, da amici o da nemici, senza slegare
le fasce o manometterle in qualche maniera. Se le fasce erano rimaste al loro
posto, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, era il segno che Gesù era
uscito vivo dal sepolcro sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che lo
avvolgevano, fuori dalle leggi dello spostamento dei corpi. Un intervento
sovrannaturale aveva sottratto quel corpo dalla nicchia nel sepolcro, lasciando
tutte le cose intatte, senza manomettere i teli funerari. Giovanni, davanti al
sepolcro, non fece nessun salto mistico. Nel suo Vangelo, soffermandosi così
minuziosamente sulla posizione delle fasce, voleva solo descrivere la prima
traccia storica della resurrezione".
Se ripensa ai tanti esperti che hanno passato la vita su queste cose, senza
riuscire a tradurre degnamente quattro versetti dal greco, gli viene quasi da
ridere. Intanto, gli spunti delle sue ricerche non autorizzate li ha raccolti in
un libro. Ne aveva proposto la pubblicazione ad alcune case editrici cattoliche.
Respinsero al mittente il manoscritto, bocciandolo per il tono «eccessivamente
apologetico». Alla fine se lo pubblicò da solo, nel 1988 ("Sulle tracce del
Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari", Edizioni C.P.R.). A
distanza di una dozzina d'anni, il volumetto sta uscendo dalla clandestinità. Lo
si trova perfino in qualche libreria cattolica. E anche padre Jean Galot,
illustre professore della Gregoriana, in un recente saggio su "La Civiltà
Cattolica" ha citato ricerche aggiornate che confermano le «scoperte» di don
Persili (cfr. "30Giorni", n.7/8, 2000). Lo hanno anche chiamato in televisione.
Dice don Persili: "Adesso, mi hanno invitato a parlare, su a Pordenone. Mi hanno
anche chiesto il mio curriculum. Gli ho scritto un foglietto con la data di
nascita, quella di battesimo, e quella di quando sono diventato prete. Non è che
avessi altro, da raccontare...". Poi questo don Nessuno si alza dalla sedia.
Sono quasi le quattro. Deve andare a suonare la campana: "La suono tutti i
giorni, a quest'ora. Sa, è per ricordare il momento in cui i primi due, Giovanni
e Andrea, hanno incontrato Gesù: "Erano le quattro del pomeriggio", dice il
Vangelo...".
Sulla via del ritorno, attraverso i vicoli di Tivoli, tornano in mente le parole
di Péguy, quando avvertiva che il nostro è un tempo in cui la realtà viene
difesa solo da gente così, "individualità senza mandato".