" Fides
christianorum resurrectio Christi est" (sant'Agostino).
Se non è
resuscitato non si può credere in lui. Si può solo, al più, venerarlo come
maestro. Si può rievocarlo, non invocarlo. Si può ricordarlo ma non incontrarlo
«Avevano solo con lui alcune questioni riguardanti un certo Gesù, morto, che
Paolo sosteneva essere ancora in vita».
Il
governatore Porcio Festo non seppe spiegare meglio a re Agrippa e a sua sorella
e convivente Berenice il motivo per cui i sommi sacerdoti d'Israele erano così
accaniti contro quel giudeo di Tarso, cittadino romano, che lui teneva in
prigione, tanto da invocarne la condanna a morte.
Sant'Agostino, quattro secoli più tardi, userà meno parole del funzionario
romano per descrivere cosa è il cristianesimo: «Fides christianorum resurrectio
Christi est». La fede dei cristiani è la resurrezione di Cristo.
Eppure, a Pasqua del 1976, il quotidiano "Le Monde" rivolse a esponenti noti e
meno noti delle comunità cristiane di Francia una domanda: "Che ne sarebbe della
vostra fede se il piccone dell'archeologo, in qualche luogo dell'antica
Palestina, dissotterrasse le ossa di Gesù di Nazareth?". Molti semplici fedeli
risposero turbati. "Sarebbe la prova che la mia fede non era che una illusione",
rispose un oscuro parroco di periferia. Ma alcuni altri, soprattutto i teologi e
i biblisti di professione, fecero spallucce. Uno di loro, prete cattolico e
psicanalista, spiegò: "La scoperta dello scheletro di Gesù rafforzerebbe la mia
credenza, perché distruggerebbe il mito della rianimazione di un cadavere. La
presenza delle ossa del Nazareno mi rafforzerebbe nella fede, che, per essere
tale, deve essere del tutto indimostrabile". Un altro, riverito teologo
protestante, aggiunse: "Questo non m'impedirebbe di credere nella resurrezione.
Anzi, un simile ritrovamento sbloccherebbe la fede, obbligandola a non fidarsi
più del visibile".
Nell'ultimo quarto del secolo ventesimo, ad arginare ogni deriva scettica, nella
Chiesa c'è stata una ferma riaffermazione di verità perenni. Qualche teologo
indiano che era andato fuori solco è stato anche rimesso in riga. Eppure,
proprio in questo tempo, sotto la bandiera delle ritrovate certezze si è
consumata la grande metamorfosi. La riduzione del cristianesimo a idealismo
religioso, a sistema di idee vere a priori, che negli anni Settanta era
prerogativa dei teologi "à la page", ora sembra diventata linguaggio comune
della predicazione ordinaria. Tanti generosi sacerdoti di oggi si affannano a
convincere fedeli e increduli che la resurrezione di Gesù è una realtà
sovrannaturale, trascendente in cui si "deve" credere per il suo valore
salvifico. E spesso finiscono per assomigliare all'ossessivo protagonista che
suscitava repulsione in una vecchia poesia di Giorgio Caproni: «Gridava come un
ossesso. / "Cristo è qui! E' qui!/ LUI! Qui tra noi! Adesso!/ Anche se non si
vede!/ Anche se non si sente!"// La voce, era repellente».
La fede come un autoconvincimento che si deve avere "prima", una certezza a
priori che ci si deve fabbricare dentro di sé, magari leggendo il Vangelo.
Sembrano tutti misticamente ispirarsi alla frase del piccolo principe di
Saint-Exupéry: "L'essenziale è invisibile agli occhi". Chiudiamo gli occhi,
stringiamo le labbra e crediamo.
Che distanza irrimediabile dai primi che lo dissero risorto. Da quei racconti
dei primi giorni dalla resurrezione che Vittorio Messori è tornato a scrutare
nel suo ultimo libro dal titolo suggestivo ("Dicono che è risorto", Sei, Torino
2000).
Né mistici né visionari
Loro non avevano alcuna fede "previa", tanto meno credevano nella verità
teologica della resurrezione "prima" di averlo visto risorto.
C'erano stati quei tre anni, quella compagnia quotidiana, percorsa da un fremito
d'attrattiva umana eccezionale. Avevano percepito, in quegli anni, che in quel "rabbuni"
c'era qualcosa di esorbitante. Qualcosa che aveva a che vedere con la promessa e
l'attesa custodite dal popolo ebraico. Ma non è che avessero capito bene di cosa
si trattava.
E alla sua resurrezione, poi, chi ci pensava? Durante quegli anni passati
insieme, non è che Gesù ne avesse parlato molto. Annota Messori: "Questa
resurrezione, che monopolizzerà la fede dei discepoli, non sembra essere un tema
centrale nella predicazione di Gesù stesso... Non viene dall'insistenza del
Maestro, che avrebbe "fanatizzato" i discepoli, spingendoli ad attenderla e,
poi, a inventarla". Gli accenni di Gesù alla sua resurrezione sono impliciti,
quasi distratti, a volte enigmatici, come quando parla del "segno di Giona".
Allusioni fatte per essere comprese solo "post factum", da chi, dopo, lo
incontrerà risorto. Tutti i Vangeli sono disseminati di indizi di questo ritegno
del Signore nell'alludere alla sua vittoria sulla morte, e della scarsa
prontezza degli apostoli nel saper cogliere questi accenni fugaci. Quando, dopo
la trasfigurazione, Gesù ordina ai tre prediletti Giacomo, Pietro e Giovanni "di
non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio
dell'uomo fosse resuscitato dai morti", l'evangelista Marco racconta che "essi
tennero per sé la cosa, domandandosi però cosa volesse dire resuscitare dai
morti" (Mc 9,9s.). Anche le parole sconsolate dei due discepoli di Emmaus non
tradiscono alcuna attesa di una imminente resurrezione. La loro speranza di
liberazione è rimasta annichilita sotto il peso di quella morte ignominiosa
("Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre
giorni da quando queste cose sono accadute") senza che si affacci sul loro
sconforto alcuna attesa di riscatto. "Gesù" sottolinea Messori "deve parlare
loro per tutto il viaggio, per convincerli che "bisognava che il Cristo
sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria". Ai due, pur suoi
discepoli, pur testimoni dei suoi discorsi prima della Passione, questa sembra
una novità che non avevano notato nel suo insegnamento".
Quanto constatato dall'esperienza
La resurrezione di colui che avevano riconosciuto come il Messia d'Israele era
del resto l'ultima cosa che dei giudei, quali erano gli apostoli, potessero
immaginarsi. Come ha spiegato l'ebraista Karl Schubert, dell'Università di
Vienna, "l'ultima cosa che un ebreo si attendeva dal Messia era che dovesse
patire, morire e poi resuscitare. L'ultima cosa che ci si aspettava, per i tempi
messianici, erano una croce e un sepolcro vuoto in mezzo alla storia". Da tutti
gli ebrei, figli dell'attesa di Israele, sia quelli dell'ala "relativista"
sadducea (che addirittura negavano ogni possibilità di vita eterna) sia quelli
della corrente "metafisica" farisaica, l'avvento glorioso del Messia era atteso
nei tempi ultimi, e per lui non era annunciata né la morte né tanto meno la
resurrezione individuale. La resurrezione e la vita eterna, come verità
dottrinali professate dalla corrente messianica maggioritaria, sarebbero state
un evento collettivo: tutti i morti sarebbero risorti per sottoporsi al giudizio
finale. Come sottolineava l'esegeta protestante tedesco Joachim Jeremias, "il
primitivo annuncio cristiano sulla resurrezione di Gesù, con un intervallo di
tempo che lo separa dalla resurrezione universale di tutti i morti, rappresenta
una novità assoluta per il giudaismo". E come ha dovuto ammettere perfino il
razionalista Charles Guignebert, che pure considerava le apparizioni del risorto
come frutto della mente allucinata di Pietro, "non vediamo davvero quali
scritture predicessero la resurrezione del Messia [...]. Per quanto ne sappiamo,
non esisteva nell'Antico Testamento una dottrina concernente la resurrezione che
fosse suscettibile di applicarsi a Gesù". Confermato, in questo giudizio, anche
dall'autorevole studioso ebreo David Flusser: "Non c'è nulla nell'intero
giudaismo dei tempi di Gesù, nulla in nessuna corrente a noi conosciuta che
sappia qualcosa di un "Figlio dell'uomo" che dovesse morire e poi risorgere".
Non è quindi da una riflessione sulle profezie giudaiche che può essere sorto
l'annuncio della resurrezione. In esse non era adombrato nessun Messia
"obbligato" a risorgere. Semmai, nota Messori, nella prima comunità cristiana si
seguì il percorso a ritroso, cercando di trovare "post factum" nel complesso
delle profezie messianiche dei preannunci di quell'avvenimento imprevisto, in
apparente contrasto con esse. «Non è la fede nella Legge e nei Profeti» conclude
Messori «che "crea" la resurrezione. E' la resa all'evento di quella
resurrezione che cerca in "Legge e Profeti" conferma a quanto ha dovuto
constatare dall'esperienza». Le profezie, quelle vere, si comprendono dopo che
si sono compiute.
I primi indizi visibili
I grandi demitizzatori razionalisti partivano dal postulato di David Friederich
Strauss: "Il divino non può essere accaduto così (anzitutto in modo immediato, e
poi per di più in modo rozzo) o ciò che è accaduto così non può essere divino".
A sentir loro, i racconti degli incontri col risorto erano una proiezione del
fervore mistico della prima comunità cristiana. Per dirla con Ernest Renan,
quella domenica mattina, "nella comunità cristiana si diffusero le voci più
strane. Il grido: "E' risorto!" corse tra i fedeli come un fulmine. L'amore fece
trovare a quel grido un credito facile ovunque. Che cosa era successo? [...]. Le
città orientali sono mute dopo il tramonto del sole. Anche nei cuori il silenzio
era profondo. I più piccoli rumori che per caso si sentissero venivano
interpretati nel senso dell'attesa di tutti. Di solito, l'attesa crea il suo
oggetto. In quelle ore decisive una corrente d'aria, una finestra che
scricchiola, un casuale mormorio, fissano per sempre la credenza dei popoli. E
quando nell'aria si sentì un alito, essi credettero di sentire dei suoni. Alcuni
dissero di aver distinto la parola "shalòm": salute, pace...".
La verve corrosiva di Renan potrebbe a ragione applicarsi ai discorsi di tanti
ecclesiastici di oggi che pretendono di essere loro a dimostrare la verità della
resurrezione per intrinseca necessità metafisica (che sia accaduta o no, è un
dettaglio che poco importa, ininfluente). Tutti, in fondo, sono in questo figli
dell'esegeta Bultmann per il quale "se la resurrezione fosse storica, la fede
diverrebbe superflua".
Ma allora, andò davvero così? Fu la nostalgia della prima comunità a sublimare
lo scacco della morte in croce alla luce dell'«idea» della resurrezione? Fu la
loro affranta coscienza religiosa collettiva a fabbricare idealisticamente la
fede? E fu questa fede a far diventare reale ciò che non era mai accaduto?
Erano, ormai, un gruppetto demoralizzato e sgomento di provinciali ininfluenti,
ignoranti, umiliati.
Anche quelli che gli erano stati più vicini, nelle ore della passione, non
avevano cercato rifugio in granitiche certezze. Erano stati a ciò che vedevano.
Davanti al disastro, alla fine di tutto, erano fuggiti. Altro che colonne della
fede irriducibile. Pietro, che Gesù stesso aveva scelto per confermare gli
altri, lo aveva addirittura rinnegato. Aspettavano solo, nascosti «per timore
dei giudei», che passasse la burrasca, per tornare, i più, agli antichi
mestieri, con più durezza e tristezza di prima. Non avevano neanche il problema
di rimanere insieme nel ricordo di un passato bello, né di tenere unita la
comunità per conservare un qualche misero potere. Se ne sarebbero andati, ognuno
per i fatti suoi.
Una resurrezione prodotta dall'entusiasmo visionario era in quei momenti così
fuori luogo, che anche davanti ai primi indizi di ciò che era accaduto quei
poveretti rimasero incerti, frastornati. Maria Maddalena, la prima e
privilegiata testimone del sepolcro vuoto, è invasa all'inizio non dalla fede
nella resurrezione, ma dalla certezza di un furto: «Hanno portato via il Signore
dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!». Solo a Giovanni, il discepolo
prediletto, basta sbirciare nel sepolcro vuoto per intuire cosa è accaduto. Ma
non si tratta di una prestazione di fervore visionario, bensì di una maggiore
prontezza di sguardo nel valutare i primi scarni indizi visibili della
resurrezione, come ha dimostrato anche lo studio, ignorato dal grande circuito,
di don Antonio Persili, parroco a Tivoli. Gli altri, come dice lo stesso
evangelista Giovanni, «non avevano ancora compreso la scrittura, che egli cioè
doveva resuscitare dai morti». A Maria di Magdala, che di ritorno dal sepolcro
annuncia a tutti di aver incontrato il Signore risorto, «essi, udito che era
vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere» (Mc 16,11). Si mostrano
titubanti persino davanti alla realtà di lui che appare: «Quando lo videro, gli
si prostrarono davanti. Alcuni però dubitavano» (Mt 28,17).
Sulle umane incertezze di simili testimoni, così riluttanti a guardare «con gli
occhi della fede» e così materialmente sospesi alla concretezza dei propri sensi
hanno fatto del facile sarcasmo gli intellettuali (agnostici, atei o mistici) di
tutti i tempi. Eppure anche esse confermano che non si trattò di uno sforzo
religioso, ma di un arrendersi alla realtà, alle cose così come erano di fatto.
Solo un evento reale, imprevisto e imprevedibile dopo il fallimento del
Calvario, poteva vincere le umanissime obiezioni di quel gruppetto di ebrei
prima impauriti e prostrati. E farne gli instancabili testimoni di un annuncio
inaudito.
Appunti di fatti registrati
Un fatto, un incontro, non va dimostrato né spiegato. Un fatto, un incontro con
una persona viva, si può solo registrare, raccontare, descrivere quando accade.
Così fecero i primi. Innanzitutto tra di loro. «Maria di Magdala andò subito ad
annunciare ai discepoli: "Ho visto il Signore!"...» (Gv 20,18). «Gli dissero
allora gli altri discepoli: "Abbiamo visto il Signore!"» (Gv 30,25). Lo avevano
visto morire realmente a Gerusalemme, nel giorno più affollato dell'anno, e
tutto sembrava finito. E con gli stessi sensi lo vedevano e toccavano ora come
realmente risorto. Pieni di stupore grato, come un regalo imprevisto,
imprevedibile, insperato, oltre ogni attesa, eppure al cuore così caro. Questo
solo, in quel momento, contava. Soltanto dopo, qualche anno dopo, si intuì che
era importante anche raccogliere le circostanze, i particolari, i ricordi delle
situazioni in cui quegli incontri erano avvenuti. Nota l'esegeta Günther
Bornkamm: «Si annunciò che il crocifisso era risorto, che era il Messia, il
Cristo Salvatore. Solo in un secondo tempo si cercò di ricostruire "come"».
Si prenda ad esempio il sepolcro vuoto. Messori parla di «sorprendente silenzio»
di tutta la predicazione primitiva (ad eccezione del Vangelo di Matteo) non
soltanto sugli sbirri del sinedrio ma, in genere, sulla scoperta del sepolcro
vuoto. «L'annuncio primitivo del cristianesimo, quale ci appare dal Nuovo
Testamento, sembra quasi dimenticare la tomba. Il fatto che sia rimasta vuota
non entra nel Credo, e tutta la prima predicazione insiste, come prova della
resurrezione, solo sulle apparizioni. Sono queste ultime che, evidentemente,
devono aver spazzato via ogni bisogno di insistere su un fatto visto come ovvio.
Se Gesù è riapparso vivo, in carne e ossa, se è vissuto di nuovo con i suoi, che
ora ne testimoniano, mangiando e bevendo, allora è scontato che non è rimasto
nel sepolcro, che quel luogo è rimasto vuoto, se non per le tracce materiali che
sappiamo e che inducono Giovanni, dopo averle viste, a credere». Soffermarsi
troppo sulla tomba prestata da Giuseppe di Arimatea sarebbe stato solo indizio
di una fissazione un pò macabra. La permanenza nel sepolcro «è solo un ricordo
triste, spazzato via dalla gioia della pasqua. Non c'è affatto -a smentita
ulteriore di chi vuole vedere i racconti di resurrezione come ispirati
innanzitutto da preoccupazioni apologetiche- il bisogno di affannarsi in
dimostrazioni, rese ormai inutili per coloro che si presentano come i
"testimoni" del ritorno alla vita del Crocifisso».
Così sono stati scritti i Vangeli. Non si voleva dimostrare o convincere di
nulla. Non erano testi di riflessione religiosa. Non un'apologia per esaltare i
poteri di un leader carismatico nel cui ricordo mantenere unita la comunità di
adepti. Ma scarni resoconti, cronache sommarie di fatti constatati e registrati.
Stesi per aiutare chi, tra gli ebrei o i gentili, rimaneva stupito e grato
davanti a ciò che il Risorto continuava a operare tra i suoi nel presente («Il
Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla
destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il
Signore operava insieme con loro e confermava la parola coi prodigi che
l'accompagnavano», così si chiude il Vangelo di Marco).
Questa finalità funzionale spiega anche lo stile dei Vangeli, l'esilità del
tessuto narrativo. La sobrietà, quella che è stata definita "impassibilità" dei
testi evangelici anche nel raccontare i miracoli o gli incontri col Risorto. Una
premura rispettosa nell'accennare al mistero così lontana dalla presuntuosa
penetrazione di arcani che segna le favole religiose inventate dall'uomo e anche
dalla stessa morbosa "curiositas", dal bisogno di «provare» che traspare nei
vangeli apocrifi.
A chi li scorre con occhio libero da pregiudizi, anche i silenzi, le lacune e le
apparenti discordanze dei racconti pasquali rivelano l'intenzione con cui furono
scritti: cenni di cronaca stesi su carta per aiutare chi diffondeva l'annuncio.
Anche il grande teologo Karl Barth riconosceva che «i racconti delle apparizioni
appaiono sconnessi e disarticolati come per effetto di un terremoto». Nota
Messori: «Quell'esplosione di luce, di certezza insperata, di gioia che è stata
la resurrezione ha messo tutto sottosopra. Il terremoto emotivo ha incrinato la
compattezza che la narrazione aveva potuto serbare fino a qui [...]. Proprio in
questa incertezza, in questa "confusione", gli evangelisti mostrano ciò che
sono: gente semplice, pragmatica, capace di muoversi bene solo sul piano della
vita quotidiana». I diversi evangelisti selezionarono episodi diversi tra le
tante manifestazioni delle quali i testimoni oculari avevano memoria. Ma ciò non
produce alcuna contraddittorietà tra i loro scritti. Suggerisce ancora Messori:
«I singoli Vangeli non raccontano una storia diversa, ma scelgono particolari
diversi della tradizione particolare che tramandavano o delle testimonianze che
avevano a disposizione. [...]
In definitiva, come osservava già l'esegeta John A. T. Roberson, «le divergenze
nelle narrazioni pasquali sono proprio del genere di quelle che dovremmo
attenderci in resoconti autentici. Resoconti bene architettati sarebbero assai
più armonizzati, assai più privi di contraddizioni». La lealtà degli evangelisti
li ha addirittura costretti ad annotare particolari sconvenienti, che
evidentemente, essendo di pubblico dominio, non potevano essere occultati. Come
la fuga degli apostoli davanti al supplizio del loro Signore, o il fatto che le
prime a vederlo risorto furono delle donne, in un tempo in cui nessun tribunale
ebraico accettava come verosimili le testimonianze di fonte femminile.
Così già il pagano Celso aveva buon gioco nel denigrare «i galilei che credono a
una resurrezione testimoniata soltanto da qualche femmina isterica».
Coi sensi hanno verificato
Così Agostino, nel "De civitate Dei", segnala la distanza irrimediabile tra la
fede cristiana e le idealizzazioni religiose prodotte dall'uomo per dare una
finzione di eterno alle proprie costruzioni: «Illa illum amando esse deum
credidit; Ista istum Deum esse credendo amavit» (Roma, siccome amava Romolo, lo
fece dio; la Chiesa invece, siccome lo riconobbe Dio, lo amò).
Solo perché lo hanno visto vivo («toccatemi e vedete che non sono un fantasma»,
Lc 24,24; «abbiamo mangiato e bevuto insieme a lui dopo la sua resurrezione», At
10,41) lo hanno riconosciuto e quindi lo hanno amato, così come si può amare
solo una persona realmente viva. Il contrario delle idealizzazioni, dove non
interessa che ciò che si crede sia reale, ma solo che serva per mantenere un
ordine stabilito. Perché chi ha un certo potere, continui ad averlo.
" Per questo la cosa più tragica non sono le obiezioni degli increduli. Ma che
oggi anche nella Chiesa questo riconoscimento di realtà sembra diventato
superfluo.
Come se se ne potesse fare a meno. Di ciò che lui, vivo, opera oggi. E che è
raccontato in paradigma in ciò che operò tra i primi.
Scrive Messori: «Se Gesù non è risorto, non si può credere in lui come
Salvatore: si può solo, al più, venerarlo come maestro. Si può rievocarlo, ma
non invocarlo. Si può parlare di lui, ma non parlare a lui. Si può ricordarlo,
ma non ascoltarlo. Se non è risorto, sono i cristiani a far vivere lui. Non è
lui a far vivere loro. Di molti altri, di centinaia di sventurati suoi
contemporanei, è possibile dire: Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e
fu sepolto. Perché, però, sia quel che la fede crede, è necessario che si possa
anche aggiungere: "Ma, dopo tre giorni, resuscitò dai morti"». Questo
testimoniarono i discepoli, per averlo verificato coi sensi. Come ricorda
sant'Agostino sempre nel "De civitate Dei": «Resurrexit tertia die sicut
apostoli suis etiam sensibus probaverunt» (E' risorto il terzo giorno come gli
apostoli, anche con i loro sensi, hanno verificato). |
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