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§ 243. Luca ci fa sapere che, quando Giuseppe e Maria giunsero a Beth-lehem, "non c'era posto per essi nell'albergo" (2, 7). Questa frase è più studiata di quanto sembri all'apparenza. Se Luca avesse voluto dire soltanto che il caravanserraglio non poteva contenere più alcuno, gli sarebbe bastato dire che ivi "non c'era posto"; egli invece aggiunge "per essi", non senza riferirsi implicitamente alle loro particolari condizioni, cioè a quelle di Maria nell'imminenza del parto. Potrà sembrare una sottigliezza, ma non è. In Beth-lehem Giuseppe avrà avuto senza dubbio conoscenti o anche parenti a cui domandare ospitalità; sia pure che il villaggio era gremito, ma un angoletto per due persone così semplici e dimesse si poteva sempre trovare in Oriente: quando a Gerusalemme affluivano centinaia di migliaia di pellegrini in occasione della Pasqua (§ 74), la capitale rigurgitava non meno che la Beth-lehem del censimento, eppure tutti trovavano posto adattandosi. Ma naturalmente, in circostanze di quel genere, diventavano simili a caravanserragli anche le squallide case private, che consistevano di solito in un unico stanzone a pianterreno: tutto vi era in comune, tutto si faceva in pubblico, non c'era riserbo o segretezza di sorta. Perciò si comprende perché Luca specifichi che «non c'era posto per essi» : nell'imminenza del parto, ciò che Maria ricercava era soltanto riserbo e segretezza. "E avvenne che, mentre essi erano colà, si compirono i giorni per il parto di lei, e partorì il suo figlio primogenito, e lo infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia" (Luca, 2, 6-7). Qui si parla solo di mangiatoia, ma questo è un indizio ben sicuro alla luce delle costumanze contemporanee. La mangiatoia svela una stalla, e la stalla esige secondo le costumanze d'allora una grotta, una piccola caverna, scavata sul fianco di qualche collinetta nei pressi del villaggio: grotte di questo genere e destinate a questo uso si trovano tuttora in Palestina nei dintorni di gruppi di case. Quella stalla su cui misero gli occhi i due coniugi sarà stata forse occupata parzialmente da bestie, sarà stata tetra e sudicia di letame, ma era alquanto discosta dal villaggio e quindi solitaria e tranquilla; ciò bastava alla futura madre. Perciò, giunti i due a Beth-lehem e vista quell'affluenza di gente, si allogarono alla meglio in quella grotta solitaria, in attesa sia di compiere le formalità del censimento, sia del parto che la gestante sentiva imminente. Giuseppe avrà predisposto alla meglio un angolo meno disadatto e meno sudicio, vi avrà preparato un giaciglio di paglia pulita, avrà estratto dalla bisaccia di viaggio le provviste e qualche altra cosa più necessaria disponendole sulla mangiatoia fissata al muro, e tutto fu lì: altre comodità non potevano esigere allora in Palestina quei due viandanti di quel grado sociale, i quali per di più si erano segregati spontaneamente in una grotta da bestie. In conclusione, povertà e purità furono le cause storiche per cui Gesù nacque in una grotta da bestie: la povertà del suo padre legale, che non aveva denaro per affittarsi fra tanti concorrenti una stanza appartata; la purità della sua madre naturale, che volle circondare il suo parto di riverente riserbo. § 244. La grotta, fra i luoghi archeologici della vita di Gesù, è quello che ha in suo favore testimonianze più antiche e autorevoli, fuor dei vangeli. Anche astraendo da vari Apocrifi che ci ricamano attorno molto, nel secolo II Giustino martire ch'era palestinese di nascita offre questa preziosa testimonianza: "Essendo nato allora il bambino in Beth-lehem, poiché Giuseppe non aveva in quel villaggio (χώμη) dove albergare, albergò in una certa grotta (σπηλαίω) dappresso al villaggio (σύνεγγυς τἧς χώμης) e allora, essendo essi colà, Maria partorì il Cristo e lo pose in una mangiatoia", ecc. («Dial. cum Tryph.», 78). Nei primi decenni del secolo III Origene attesta egualmente la grotta e la mangiatoia, e si appella alla tradizione notissima in quei posti e anche presso gli alieni dalla fede («Contra Celsum», 1, 51). Sulla base di questa tradizione Costantino nel 325 ordina che si costruisca sulla grotta la grandiosa basilica (cfr. Eusebio, «Vita Constantini», III, 41-43), che nel 333 è ammirata dal pellegrino di Bordeaux e che rispettata nel 614 dai Persiani invasori è tuttora superstite (1). § 245. Venuto alla luce Gesù in questa grotta, Maria "l'infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia". Queste parole del delicato evangelista medico fanno intendere abbastanza chiaramente che il parto avvenne senza l'usuale assistenza d'altre persone: la madre da se stessa accudisce al neonato, l'infascia e lo ripone sulla mangiatoia. Neppure Giuseppe è nominato. Soltanto le successive narrazioni apocrife s'affanneranno a far venire la levatrice, inviando in giro Giuseppe a cercarla («Protovangelo di Giacomo», 19-20); ma nel racconto di Luca non c'è posto per essa, come già aveva rilevato S. Girolamo: "Nulla ibi obstetrix, nulla muliercularum sedulitas intercessit; ipsa pannis involvit infantem: ipsa et mater et obstetrix fuit" («Adv. Helvidium», 8). Non per nulla la futura madre aveva cercato con cura sì premurosa un luogo solitario e tranquillo. Così dunque Maria "partorì il suo figlio primogenito" (2), che l'angelo le aveva preannunziato come erede del trono di David padre suo (§ 230). Senonché il futuro regno del neonato - stando almeno a quelle prime manifestazioni - si prevedeva ben diverso dai regni d'allora, giacché questo erede dinastico aveva per aula regia una stalla, per trono una mangiatoia, per baldacchino le ragnatele pendenti dal soffitto, per nubi d'incenso le esalazioni del letame, per cortigiani due creature umane senza casa. Tuttavia il regno di quell'erede dinastico si annunziava fin d'allora con talune note caratteristiche davvero nuove e del tutto ignote ai regni contemporanei: delle tre persone componenti quella corte stalliera, una rappresentava la verginità, una l'indigenza, tutte e tre l'umiltà e l'innocenza. Esattamente 9 chilometri più a settentrione sfolgoreggiava la corte indorata di Erode il Grande, in cui la verginità era parola affatto sconosciuta, l'indigenza era aborrita, l'umiltà e l'innocenza si manifestavano nell'attentare alla vita del proprio padre, nel mettere a morte i propri figli, nell'adulterio, nell'incesto e nella sodomia (3). Il vero contrasto storico fra le due corti non era tanto fra il letame dell'una e gli ori dell'altra, quanto fra le loro caratteristiche morali. 1) Ma la costruzione di Costantino pose anche fine ad una profanazione. S. Girolamo, vissuto lungamente a Beth-lehem, narra che dai tempi di Adriano fino a Costantino il paganesimo aveva profanato a bella posta i luoghi più celebri della vita di Gesù, e fra gli altri il luogo della sua nascita era stato adombrato da un "bosco di Tammuz, cioè di Adonide, e nella grotta dove un tempo Cristo vagì bambino era pianto l'amante di Venere" («Epist.», 58). Questa notizia non sorprende chi ripensi alla grande insurrezione giudaica di Bar Kokeba e alla terribile repressione fattane da Adriano nel 135. La Palestina fu allora paganizzata per esplicito programma: come Gerusalemme diventò la pagana Aelia Capitolina con un tempio a Giove sul luogo del tempio ebraico e un tempio di Afrodite sul luogo della morte di Gesù, così si provvide ad impiantare attorno alla grotta di Beth-lehem il licenzioso culto di Adone-Tammuz con il boschetto relativo. La notizia di S. Girolamo è dunque storicamente chiarissima e regolare. È invece artificiosa l'interpretazione che ne hanno voluto dare recentemente alcuni pochi studiosi, secondo i quali il culto di Adone-Tammuz era l'originario della grotta, mentre quello di Gesù Cristo fu posteriore e introdotto a forza in sostituzione del primo. Ciò significa voler far dire a S. Girolamo precisamente il contrario di quello che dice, e imporgli questa affermazione per principii aprioristici e che sono in contrasto con ogni circostanza storica; Giustino martire fornisce la sua testimonianza in favore del culto di Gesù e non di Adone-Tammuz, e ciò nel secolo II allorché le persecuzioni del cristianesimo favorivano introduzioni violente di culti pagani ma non di quello cristiano. 2) L'espressione è tipicamente ebraica: "il figlio primogenito" è l'ebraico «békor», termine di particolare importanza giuridica perché il primogenito ebreo doveva essere presentato al Tempio, e Luca impiega qui questo termine quasi per preparare il racconto della presentazione di Gesù al Tempio, che narra egli solo fra i quattro evangelisti. Ma il termine, in questo contesto, fornì l'appiglio per attribuire a Luca l'affermazione implicita che Maria ebbe in seguito altri figli, altrimenti «primogenito» sarebbe stata una parola priva di senso. Già nel secolo V S. Girolamo aveva risposto a Elvidio, primo rappresentante di questo ragionamento, facendo notare che "omnis unigenitus est primogenitus: non omnis primogenitus est unigenitus. Primogenitus est, non tantum post quem et alii, sed ante quem nullus» («Adv. Helvidium», 10); ma invano, e si tornava a ripetere l'argomentazione di Luciano: "Se è primo non è solo; se è solo non è primo" («Demonax», 29). Naturalmente la Riforma protestante fece di questa espressione lucana il suo cavallo di battaglia contro il culto cattolico di Maria; ma anche i razionalisti, che spesso hanno egregie osservazioni storico-filologiche, non hanno interpretato il termine in senso storico-filologico e hanno preferito il ragionamento di Elvidio: solo pochi, fra cui il Loisy, sono rimasti dubbiosi. Oggi la discussione è terminata, e chi ha avuto ragione non è stato certamente Elvidio con i suoi seguaci. Nell'anno 5 av. Cr., cioè a pochi mesi di distanza dal parto di Maria, partorì in Egitto una giovane sposa giudea lasciandovi però la vita; la stele sepolcrale, fingendo che la defunta parli, le fa dire fra l'altro questo: "... Il Destino mi condusse al termine della vita fra le doglie del primogenito figlio..." [...] ; l'iscrizione fu pubblicata da C. C. Edgar nelle «Annales du Service des Antiquités de l'Égypte», sotto il titolo «More tomb-stones from Tell el Yahoudieh», tomo 22 (1922), pagg. 7-16, e riprodotta in «Biblica», 1930, pag. 386. La morte della puerpera dimostra, contro Elvidio e seguaci, che quel primogenito fu anche unigenito, come nel caso di Gesù. Presentandosi l'occasione ricordiamo l'analogo e anche più facile passo di Matteo, 1, 25, che parlando delle relazioni fra Giuseppe e Maria dice: "Ed (egli) non la conosceva, finché partorì (un) figlio". Il verbo conosceva è il termine eufemistico che già esaminammo (§ 230). La congiunzione «finché», «éms», corrisponde all'ebraico «‘ad», il quale si riferisce soltanto al compimento dell'azione annunziata appresso, astraendo però da ciò che avverrà ancora in seguito: vi sono esempi in tal senso sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento (Genesi, 8, 7; Salmo 110 ebr., 1; Matteo, 12, 20; 22; 44; 28, 20; 1 Timoteo, 4, 13). Perciò giustamente il Loisy stesso ha fatto notare che Matteo in questo passo ha di mira la nascita di Gesù, alla quale nega ogni intervento paterno, senza estendersi al tempo successivo. 3) Tutta la storia di Erode è intessuta di questi fatti secondo la narrazione di Flavio Giuseppe, in «Guerra giud.», I, 431-664; per l'ultimo delitto, cfr. ivi, 489; «Antichità giud.», XVI, 230-231. |
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